giovedì 8 gennaio 2015

Il rumore di un'azienda in via di chiusura

Il rumore di una fabbrica in via di chiusura

Estratto da "Mi lasciai guardare dietro". (In corso di scrittura)

M'incamminai tra le cataste di suppellettili abbandonate senza provare più il timore di aver perso qualcosa insieme ad esse, ormai mi ero abituato ed in fin dei conti avevo ancora il mio lavoro.
 Già, il lavoro... In questo giorno non avrei dovuto fare che poche cose e tutte di preparazione. L'apparato era riparato e mi potevo rilassare un poco.
Arrivai in laboratorio e trovai utile fare compagnia ai miei pensieri. Di solito alcuni li lasciavo dentro la borsa di quelli inespressi, altri invece erano talmente travolti dagli eventi che aspettavano in un angolo.
Era in questi momenti che guardavo intorno per cercarmi dentro. Dovevo trovare cosa mi stavo nascondendo. E allora uscii dal mio torpore mentale e mi vidi immerso in questa cazzo di fabbrica in disfacimento.
Vidi la disperazione delle sedie abbandonate, sentii la fatica dei fili nel reggersi a penzoloni, carpii il lamento dei neon che avrebbero voluto addormentarsi. Ero io a tenerli in agonia.
Ma non mi sentii tiranno e nemmeno boia. Avevo sempre spinto il bottone d'accensione, continuamente manovrato gli utensili, dato vita al metallo inerte, insomma avevo sempre fatto il mio lavoro e se adesso tutto andava a puttane non potevo farci nulla. Non era questo che mi stavo nascondendo. Sapevo bene di essere il n' 1393 e che ben altri erano i responsabili della chiusura. Era lontano il giorno in cui vedendo il sudore del ferro pensai di poterlo padroneggiare.

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L'acciaio sfregato scottava sudando limatura. La polvere metallica cadeva giù pesantemente, era la prima volta che usavo una sega a ferro, barcollavo come un peschereccio in balia di una tempesta. Ettore mi indusse alla calma.
"Devi andare dritto, non stai lucidando uno stivale. Impugna la sega e mettiti in asse. Cosa credi di stare facendo? Stai lavorando."
Cambiò espressione in un momento, nel suo mento largo svanì quel sorriso da zio premuroso che aveva indossato poco prima di darmi i consigli. Gli occhi cambiarono punto focale, anzi guardarono verso un infinito che sembrava provenire da dietro, sembrava guardasse sé stesso indietro nel tempo.
Continuò più mestamente dopo aver sospirato profondamente "Qualcuno ti ha ordinato di tagliare questo pezzo di tondino, magari non a voce, ma tramite un disegno. Non sei un artista che segue il proprio istinto, non stai creando. Dovrai sempre tagliare un tondino nella tua vita. È lavoro piccole'... è un progetto scritto da altri e tu lo eseguirai nonostante tutto.".
Continuai a segare il tondino soddisfatto di essere capace di seguire il consiglio di Ettore.
L'acciaio si dissolveva lentamente con lo sfregare della lama.

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E da allora iniziarono anche a dissolversi i miei sogni.
Molto più tardi iniziai a capire cosa volesse dire Ettore.
Compresi un bel po' quando chiuse la fabbrica dove vennero pronunciate quelle parole, ne ebbi la conferma quando qualche mese fa, durante un'assemblea sindacale, ci misero al corrente della chiusura di questa attuale.
In assemblea presi la parola dopo che la sindacalista oratrice ci comunicò che la direzione aziendale auspicava collaborazione per la chiusura e per il trasloco.
Arrivai al microfono molto arrabbiato, le parole mi scapparono dalla bocca galoppando come una mandria imbizzarrita
"Non ho affatto l'intenzione di collaborare!!! non voglio scavarmi la fossa per poi esservi gettato da chi ha deciso di condannarmi. Lo dico adesso e davanti a tutti: durante il trasloco non toccherò un bullone!!!" mentre parlai sentii la paura del microfono e quell'ingombrante intoppo che blocca le parole dentro una parte del corpo difficilmente localizzabile. Le parole non sembra che si blocchino nel cervello, né nella gola, nemmeno nella bocca e non nei polmoni o nella pancia.
Però quel poco che uscì al galoppo sollevò dei polverosi applausi tra i partecipanti, alcuni addirittura si accalorarono alzandosi in piedi.
L'assemblea sembrò infuocarsi, sentii le sedie scivolare dietro i culi delle persone che si rizzavano in piedi e qualche pugno sui tavolini. U
Ma ciò che mi restò impresso furono i sorrisetti maliziosi di molti che non si mossero neppure di un millimetro. Questi sembravano sapere che prima o poi una scintilla sarebbe scoccata. Restavano a guardare il tavolo dei sindacalisti e le loro caute mosse unicamente volte a rappacificare l'atmosfera, restavano ad aspettare che tutto fosse finito come al solito in un richiamo all'ordine. Restavano neutrali e viscidamente opportunisti. Restavano a calcolare quanto, quelli che ai loro occhi erano i poveri illusi, avessero continuato ad urlare invano e quanto i sindacalisti ci avessero messo a riportare la calma.
Mi sentii come una marionetta nelle loro mani.
Mi fermai, non riuscii a cavalcare le parole che scalpitavano per uscire dalla mia bocca.
Mi venne la certezza d'essere solo uno dei pochi che vistosi travolto dagli eventi avrebbe usato tutti i mezzi per ritardare il trasferimento. Gli altri già stavano cercando una salvezza basata sull'indegna svendita della propria personalità. Nessuna dignità alberga nell'uomo che ha paura di perdere quelli che reputa agi.
Non è la paura del posto di lavoro, magari lo fosse, il lavoro non è un agio e poi ciò renderebbe l'uomo o faina o leone. Invece questi erano viscidi come i vermi e determinati come i parassiti.
La sindacalista al microfono riuscì in poco tempo a riportare la calma capendo che la maggioranza dell'assemblea sarebbe corsa a cercare una raccomandazione.
In cuor mio sapevo di avere ancora un tondino da tagliare, deglutii la rabbia ed uscii dalla sala mensa senza aspettare che l'assemblea terminasse.

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